Mondano e solitario, bello e bugiardo: sia lode ora a Frederic Prokosch
di Linda Terziroli – Pangea – 14 febbraio 2023
Anche quando ci proviamo, e molti ci provano sul serio, non traduciamo mai del tutto la nostra vita”. Un romanzo intraducibile come la vita, dunque, quello di Frederic Prokosch? The conspirators (uscito nel ’43 da Harper & Brothers), titolo originale I cospiratori, approda per la prima volta in Italia grazie alla traduzione di Antonio Armano. Americano, nato nel Wisconsin da una famiglia austriaca, Prokosch (1908-1989) fece il suo ingresso, nel mondo letterario, con The Asiatics (1935), un romanzo avventuroso scambiato per un libro di viaggi. Mondano e solitario allo stesso tempo, atletico e amante del tennis, omosessuale e forse penalizzato dall’aspetto di attore hollywoodiano, poco consono a un romanziere raffinato, Prokosch si ritrova a transitare a Lisbona per tornare negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale.
Lisbona è la capitale di un paese neutrale, un’isola franca nel mare nazista, una sorta di Casablanca settecentesca, levigata dai secoli e inondata dalla luce dorata del glorioso passato. Lisbona, 1942, è dove si radunano “mille frammenti di un’Europa andata in pezzi”: qui inizia e finisce I cospiratori, nel cuore della “capitale più vecchio stile d’Europa”, popolata da personaggi di ogni età, specie e colore politico. Incline come Hemingway ai viaggi senza biglietto di ritorno, al grand tour perenne, Prokosch vi resta molto più a lungo del previsto. Forse anche in missione segreta per conto del governo americano, mentre gli Stati Uniti non sono ancora scesi in campo e i nazisti dilagano ovunque sollevando ondate di relitti umani: “Da fuori e al sicuro, guardavamo l’alluvione della storia scorrere oltre. Tutt’intorno stava turbinando e rimbombando, sradicando e annichilendo…”, scrive. Osservando questa umanità che, come la notte, si dibatte, “si agitava oltre le tende come una pantera dietro le sbarre”, questo incombere della tempesta sulla vita, Prokosch raccoglie il materiale per il suo romanzo resistenziale ed esistenziale che tuttavia rispetta le regole del noir. Tutto si svolge in una giornata. Vincent, giovane olandese, evade di prigione per vendicarsi della spia che ha fatto finire in prigione lui e altri “cospiratori”.
Cospiratori è, forse per il Novecento, parola infelice e oggi fuorviante: trattasi di militanti della causa antifascista. Riletto oggi, a ottant’anni di distanza, I cospiratori mette in luce le straordinarie qualità stilistiche, ma anche la capacità di penetrazione psicologica dell’autore. È dunque un libro che, nonostante il finale quasi patriottico, resistenziale, si colloca nel territorio contraddittorio del trauma della sconfitta, del crollo della linea Maginot in Francia, quando la parola d’ordine è si salvi chi può. È un libro scritto a caldo, ma proprio per questo, a partire dal titolo, privo di alcune delle categorie che avranno altre pubblicazioni uscite dopo la guerra e la vittoria degli alleati. Ne parliamo con il traduttore, Antonio Armano, giornalista e scrittore, iniziando dai riflessi in bianco e nero sul grande schermo.
Hai visto il film del 1944 che il regista Jean Negulesco ha dedicato a I cospiratori?
“Poteva essere un meraviglioso noir d’atmosfera, limitandosi a riflettere il romanzo. A parte il titolo e poche altre cose, come lo sfondo portoghese, il film stravolge invece completamente il libro, in modo incomprensibile persino per una logica commerciale. Non ne hanno azzeccata una”.
In che senso?
“Pensiamo agli attori. Con la sua sensibilità estetica omoerotica, Prokosch dipinge due spie affascinanti, Vincent e Hugo. Il primo è olandese, moro, giovane, muscoloso, ingenuo e passionale. Il secondo, tedesco, ha colori più chiari, ha passato i trenta ed è più raffinato, freddo, ambiguo e seducente. Tutti e due hanno una relazione con Irina, una spia russa che inizia a invecchiare e ama Hugo non sapendo della sua attività di agente nazista. Irina è la bellissima Edy Lamarr e so far so good. Ma Hugo è una specie di vampiro con il cache-col e i baffetti, un gentiluomo mitteleuropeo che ha salvato Irina da Mauthausen, interpretato da un attore belga quasi sessantenne, Victor Francen. Lei lo ha sposato per riconoscenza ma ama Vincent. Assurdo. Nel romanzo è libera come l’aria e ama Hugo. Ci voleva qualcuno tipo Helmut Berger per quel ruolo. Anche Vincent è meno giovane di quanto sia nel libro, ma almeno attraente. Lo interpreta Paul Henreid, attore austroungarico naturalizzato americano che assomiglia un po’ a Prokosch di cui condivide l’origine. E non parliamo di Lisbona, ricostruita in studio solo nella sua accezione di presepe latino arretrato e pittoresco, non di sontuosa capitale imperiale, più simile al Messico che alla realtà. Casablanca, non solo grazie a Humphrey Bogart, è una pellicola di un altro livello”.
Come Nabokov, anche Prokosch era collezionista di farfalle.
“Ogni scrittore è un po’ entomologo. Cerca di catturare il fascino effimero della vita. Ma diversamente dall’entomologo, se trafigge le sue creature con uno spillo ha fallito. Quello che ci interessa è quanto viene prima di quel momento tremendo in un cui le ali si distendono per l’ultima volta nella teca per essere appese al muro. In Voci (sempre Adelphi), forse il suo libro più noto, Prokosch descrive proprio questa procedura e dichiara di non volerla più mettere in atto. Non ucciderà mai più farfalle. Non a caso temeva che i suoi personaggi fossero maschere, caratterizzati dal rigor mortis”.
Perché Voci è oggi il libro più letto e conosciuto di Prokosch?
“Perché rientra in una tipologia letteraria che ha anticipato e cioè la l’autofiction. Si snoda attraverso molti lunghi viaggi senza ritorno spesso in macchina da solo e una incredibile serie di incontri letterari. Da Malaparte a Thomas Mann, da Hannah Arendt alla baronessa Blixen, da Nabokov a Ezra Pound, con il quale gioca a tennis a Rapallo. E poi c’è un selvaggio bagno naturista con Dylan Thomas sul litorale romano, una triste cena a Stoccolma con Aleksandra Kollontaj, rivoluzionaria russa diventata la prima donna ambasciatrice della storia. La donna che Stalin ha mandato fuori dalle palle quando la rivoluzione è diventata regime, quando le sue teorie sul sesso libero e antiborghese erano diventare scomode. Nessuna farfalla sfugge a Prokosch”.
Si dice che molti incontri di questo libro non siano mai avvenuti.
“Questa è la parte di invenzione. Prokosch era uomo di mondo, famoso e stimato per il suo libro d’esordio, un grande successo, Gli asiatici. Sicuramente avrà conosciuto tanti protagonisti della cultura del Novecento, ma non credo nelle modalità che racconta in Voci e non credo tutti. Si muoveva in un territorio ambiguo tra realtà e finzione di cui era maestro. Faceva insomma il doppio o triplo gioco come Hugo o come Dusko Popovič, detto Triciclo, una spia da lui realmente conosciuta a Lisbona e ritratta in Voci che era al soldo di tutti e quindi, per dirla con Scerbanenco, ‘traditore di tutti’. Popovič era molto fortunato al gioco, ma non ci stupisce perché senza una buona dose di culo non duri molto in quel ruolo. Tornando al nostro discorso: difficile pensare che Prokosch si sia ritrovato seduto per caso di fianco a Nabokov a Ginevra mettendosi come se niente fosse a parlare di farfalle con tono gravemente filosofico come leggiamo. Però teniamo conto che quelli erano anni in cui gli scrittori e in generale gli artisti si vedevano molto più spesso in giro e non solo per festival con interviste collettive programmate. È quell’epoca magica in cui, come ricordava Arbasino, andavi dal barbiere sulla Croisette a Cannes e incontravi Simenon, oppure scrivevi una lettera e uno scrittore ti si concedeva. Ciò detto Arbasino non si è mai concesso a nessuno, gli interessavano solo gli aristocratici come a Proust”.
Bastava avere un po’ di fortuna o di pazienza come per le farfalle. Anche nella Lisbona del romanzo ci sono farfalle?
“Una delle descrizioni più belle riguarda il volo di una farfalla, ma non è puramente calligrafica perché serve per capire meglio la situazione in cui si trova Vincent mentre sta per diventare un assassino:
Quella banale bellezza sembrò improvvisamente gloriosa, soprannaturale. La creatura aveva solo un paio d’ore di vita; stava ancora esplorando il primo abbaglio di essere al mondo – lo scintillio del sole, l’aria fragrante, il miracolo del volo e l’illimitata libertà […]. Un piacere selvaggio attraversò Vincent. Come poteva aver sempre frainteso la qualità della giovinezza? Così breve, così irripetibile, così dolcemente abbagliante! Come si poteva sognare di profanare quei minuti dei quali persino gli insetti traevano pieno piacere? I morti sono morti per sempre: quale idiozia spingeva l’uomo, unico tra tutte le creature, a costruire muri intorno al cuore? La farfalla balzò e svolazzò selvaggiamente attraverso i portici e poi tranquilla volò sempre più in alto, sopra la torre della cattedrale, finché svanì nella cisterna blu profondo del cielo”.
Quali sono state le difficoltà del lavoro di restituzione in italiano del romanzo?
“Come si vede dalla descrizione del volo della farfalla, Prokosch ha una scrittura pittorica, elegantissima, ricca di sfumature, fatta di periodi lunghi e termini ricercati. L’italiano è perfetto per renderla. Anzi credo che in traduzione non perda nulla”.
Perché nella bellissima prefazione al romanzo Nanni Delbecchi definisce Prokosch “l’homme d’une nuit”?
“Prokosch ha incontrato tutti, ma nessuno ha incontrato Prokosch. Nel senso che in Voci si trova tutto il mondo culturale del Novecento, mentre nei vari libri di memorie scritti dai protagonisti della cultura del Novecento non incontriamo Prokosch (naturalmente lo leggevano e lo recensivano. In Italia, Parise e Arbasino si sono occupati di lui). Quando ho saputo che Delbecchi, giornalista e scrittore di impronta campaniliana e dunque amante dei paradossi, aveva incontrato Prokosch, ho proposto all’editore e al direttore editoriale di Settecolori, Stenio Solinas, di ospitare il suo bellissimo racconto. Delbecchi ha incontrato Prokosch nella villa dove viveva non lontano da Grasse. Lo scrittore stesso si è definito ‘l’uomo di una notte’ perché di giorno correva dietro alle farfalle ma di notte cercava una compagnia meno impalpabile. L’alba costituiva uno snodo senza ritorno di questa dinamica. Era un bell’uomo ed era circondato da un alone di prestigio letterario e le conquiste non dovevano mancargli, ma restavano tali. Prede. In uno dei suoi libri più belli, Il manoscritto di Missolungi, mette il materiale di questa vita vissuta nell’ombra, quando, come diceva Arbasino, non esisteva neanche la parola omosessuale, ma gli omosessuali esistevano eccome e se la spassavano, nei parchi e così via. In questo libro troviamo l’inno alle qualità estetiche del pene rispetto alla vagina, la fenomenologia del peto dell’amante (Byron aveva conquistato anche molte fanciulle), una sodomia subita da un pascià se non ricordo male, come accaduto anche a Chatwin in Africa”.
Qual era il giudizio di Parise e Arbasino su Prokosch?
“Parise in una recensione sul Corriere lo liquida come scrittore snob, uno di quei raffinati autori che piacciono ad Adelphi. Mi sembra faccia l’esempio di Maugham e Capote. Non è un complimento dato il modo in cui lo dice. Ma per noi almeno neanche il peggior insulto. Non sapeva che sarebbe diventato anche lui un autore Adelphi e per sua fortuna. In altre parole Vincent non era Mersault, Prokosch non era Camus e questo allora costituiva una colpa. Arbasino era meno ‘serioso’ di Parise e paragona Gli asiatici ad Amori d’oriente di Comisso dicendo che il libro dello scrittore di Treviso è migliore perché racconta esperienze vissute realmente. In sintesi: Prokosch era un autore letto e apprezzato anche se con riserve da qualcuno, come tutti. Del resto allora i libri si leggevano in modo più spassionato e analitico. Il capolavoro era all’ordine del giorno. Il genio era la norma. L’autore era dunque meno mitizzato o esaltato acriticamente. Le recensioni non erano dei resoconti, dei riassunti più o meno esaltati della trama. Le marchette erano meno frequenti. Le terze pagine erano una roba seria. In compenso, per tornare a quel tempo, Giorgio Soavi scrive un pezzo entusiasta su Voci”.
Qual è la storia che si cela dietro la poesia in epigrafe ai cospiratori?
“Prokosch ha regalato a Delbecchi un libretto che ha confezionato manualmente contenente una breve poesia inedita. Parlava proprio del Portogallo, guarda caso, ed era dunque perfetta per aprire I cospiratori. S’intitola The Wreck, ‘Il relitto’, e descrive con poche pennellate felici la barca di un pescatore sfortunato, tra le cui costole di legno i pesci fluttuavano con gli stessi colori del cielo, blu e oro. Poiché come Prokosch crediamo un po’ nel Dio dei libri e comunque in letteratura le coincidenze non esistono, l’abbiamo inserita dopo la prefazione come una sorta di tunnel subacqueo e onirico per entrare nella Lisbona di quel tempo incredibile”.
L’intervista è a cura di Linda Terziroli
I cospiratori
Città d’ombre, passiva e sonnolenta, durante la Seconda guerra mondiale Lisbona diviene un frenetico bazar che l’invasione nazista dell’Europa riempie di profughi: in fuga, in cerca di asilo o di soccorso. La capitale portoghese è un luogo dove forse ci si può fermare o ci si può nascondere, un luogo da dove forse tutto può…