La notte che arrivai al Café Gijón. Il capolavoro di Francisco Umbral
di Matteo Nucci – L’Espresso – 12 settembre 2022
È la notte di un sabato del 1961. Sull’uscio del Café Gijón, principale ritrovo madrileno di intellettuali e artisti, si ferma un giovane dall’aria perduta dietro cui si nasconde la meraviglia filosofica. Ha occhiali come fondi di bottiglia e una zazzera che già tende a imbizzarrirsi, ma non porta ancora nessun segno del dandy che verrà. È cresciuto a Valladolid, non troppo lontano da Madrid in effetti, eppure distante anni luce dagli scintillii letterari che il ragazzo ha sognato durante la sua adolescenza solitaria e che ora improvvisamente gli sfarfallano davanti agli occhi. Fra i divani annebbiati dal fumo di tabacco nero e il bancone zeppo di uomini e donne, gli specchi del Caffè reduplicano immagini della più classica fra le situazioni mediterranee: la chiacchiera in cui si discutono appassionatamente temi decisivi – esistenziali e filosofici.
È una chiacchiera che gli spagnoli hanno quasi formalizzato in quella che chiamano tertulia, e fra i partecipanti il ragazzo sa già riconoscere scrittori, pittori e poeti finora soltanto vagheggiati. Ma non ci sono solo intellettuali. Il ragazzo vede sfilare una pletora di genti fra cui dominano osservatori che hanno l’aria di meditare in silenzio, figure animate dal rancore, modelle che sembrano volare e camerieri che effettivamente volano. Sono solo pochi istanti, però, poi il ragazzo entra. E da quel Caffè non riemergerà per anni, dando così avvio a una storia unica. Una storia di apprendistato, iniziazione, scoperta e confronto capaci di formare un uomo, Francisco Umbral, scrittore eccezionale, e in particolare un libro, un capolavoro, La notte che arrivai al Café Gijón (Settecolori, pp. 303, euro 26).
I motivi per cui questo libro capace di intrappolarvi senza dare scampo non aveva trovato finora editori italiani sono evidenti. Fin dalle prime pagine, infatti, i nomi di intellettuali legati a una stagione molto particolare della Spagna franchista vi cadranno addosso come pioggia e poiché difficilmente riuscirete a riconoscerne più di uno o due ogni dieci, potreste credere di avere fra le mani un’opera provinciale e perduta. Ma non è che un’impressione. Perché non è affatto necessario conoscere la Madrid letteraria che Paco Umbral racconta.
La notte che arrivai al Café Gijón è un’opera che supera i tempi in cui è ambientata e li sposta in un dimensione di eternità tutta letteraria, una dimensione in cui ci sono la vita e la morte, l’amore e il fallimento, l’odio e la riconoscenza, la paura e la sfida, e tutto quel che rende grande un libro, tutto quel che trasforma in eternità l’effimero e che rende infinita l’arte del romanzo, visto che di romanzo dobbiamo parlare, in fondo, e non di memoir. Ma questa consapevolezza la acquisterete via via, scendendo nei gorghi raffinati di una lingua imprendibile, e finirete per ringraziare Settecolori, la casa editrice da poco rinata a nuova vita che sta offrendo regali straordinari ai lettori, con la sola geniale arte di non inseguire i fantasmi del mainstream.
Nel Caffè Gijón, del resto, Umbral si costruisce soprattutto come scrittore. E se lo seguiamo nella sua devozione completa alla letteratura che lo spinge a dare tutto per una macchina da scrivere, a soffrire per i più classici rifiuti, a lavorare giorno e notte trovando solo il tempo per mangiare il vento di Madrid, quello che ci ammalia però è la sua progressiva scoperta. “Avevo compreso ciò che molti non comprendono mai: non si resta per le idee, per le argomentazioni, per le opere né per i personaggi. Nella letteratura si resta, molto più modestamente, per la voce”.
La voce di Umbral è fatta di brevità arguta, di poesia in prosa, di giochi linguistici e tendenza alla massima, all’aforisma che è disposto a farsi annientare nella sua contraddittorietà, proprio come l’esistenza di ciascuno di noi. “Eraclito è un fuoco bianco nel sole della Grecia”. Eraclito è la gioia della massima che si getta nel fluire costante di acque insondabili. Umbral si immerge nella vita di una Madrid in cui il moralismo autarchico del franchismo si sta annacquando in una specie di piccolo boom economico e i nemici di un tempo si ritrovano a bere assieme e c’è chi ormai sentenzia “Vedi, Umbral, il comunismo non mi interessa più perché vuole risolvere problemi che io non ho”. È l’arte in se stessa a costituire la vera sovversione. I franchisti, dominati dalla visione religiosa dell’Opus Dei, questo non possono capirlo, e lasciano così spazi di libertà di cui non vedono il pericolo. Per Umbral e quelli come lui è lo spazio decisivo. E la voce prende il sopravvento.
“Le modelle arrivavano al Caffè verso le prime ore del pomeriggio. Erano come uno stormo di uccelli migratori e agili che, per qualche momento, avevano interrotto il volo sul pantano del Gijón e che posavano sui toni ocra spenti del locale una sontuosità da volatili esotici, il lusso dei loro occhi incastonati sul velluto, le gambe lunghe come strumenti musicali e un profumo che era come piume delicate e invisibili emanate dalla loro avvenenza”. Giuliana Calabrese ha tradotto magnificamente l’opera di uno scrittore eccentrico e prolifico, uno che scriveva con passione e facilità (“La facilità è una cattiva fidanzata. È che io ho sempre avuto cattive fidanzate”. Ne scrive Carlos D’Ercole nella prefazione) arrivando a sfornare 110 libri e oltre 3500 articoli, su tutto il romanzo straordinario Rosa e mortale che era la sua unica opera già esistente in italiano (ne scrive Gabriele Morelli nella postfazione).
Nel Caffè Gijón, Umbral crebbe al punto da capire che “la letteratura è un sacerdozio in cui non si crede, ma la mancanza di fede non implica mancanza di disciplina” e che questa dedizione completa significa “mestiere da cenobita che si può portare avanti soltanto con un’economia rigorosa”.
Il lettore finisce così per vivere una stagione letteraria che lo porta, come dicevo, fuori da ogni tempo. È la giovinezza in cui si “viaggia nella notte vuota e placida dell’estate madrilena, godendo la velocità e bevendo l’aria”, quando si scopre “la più terribile delle lezioni della vita, che sembra molto semplice ma che fa rabbrividire: i vecchi di oggi sono i giovani di ieri”, e si alternano giorni di quella speranza totale che gli spagnoli chiamano “ilusión” a giorni in cui “mi sentivo desolato come quando, da bambino, feci cadere un anello nell’acqua”.
Fra immagini di pittori indimenticabili, donne tratteggiate con il senso della pittura, e figure di poeti e prosatori che scrivono come se dovessero dipingere, finiremo per scoprire molte complesse verità. Per esempio che quelle terribili figure di “odiatori professionali” sempre presenti nel Caffè, come in qualsiasi ambiente di ricerca e lavoro, sono sì persone che invidiano e odiano chiunque abbia trovato la propria strada, ma “ironia della vita, di solito giovano all’immagine della persona odiata”, perché tutto è contraddittorio e nulla è come sembra. Tanto che alla fine, quando l’iniziazione del giovane malato di letteratura si è compiuta e il ragazzo è diventato lo scrittore che avrebbe dominato la scena letteraria per decenni, c’è un unico punto fermo da cui è possibile ripartire: il disincanto.
La notte che arrivai al Café Gijón
Negli anni Sessanta della Spagna franchista, il Café Gijón era una specie di parlamentino letterario, dove si facevano e si disfacevano le reputazioni degli scrittori, si tenevano a battesimo quelle dei pittori, si aggiravano toreri e avvocati, generali in pensione, ex repubblicani usciti dal carcere e poeti maledetti, qualche alcolizzato e un po’ di malavita.…