Lucien Rebatet. Peccato che fosse una canaglia
di Massimo Raffaeli – Il Venerdì di Repubblica – 26 febbraio 2021
LA MATTINA del 16 luglio 1942 a Neuilly-sur-Seine, banlieue est di Parigi, vengono recapitate nel domicilio dell’autore le copie staffetta di quello che in poche settimane diviene il bestseller dell’Occupazione nazista, Les Décombres (“Le macerie”), per cui si parla di una tiratura di oltre 50 mila copie nonostante la carta razionata dai tedeschi. E un libello mostruosamente gonfio di insulti antisemiti, di ingiurie antidemocratiche e di vere e proprie delazioni nei confronti di ebrei e di resistenti: chi lo ha scritto, alla maniera di un memoriale e inseguendo la traccia autobiografica della sua generazione, è un giornalista attivo tra la Action Française del vecchio Charles Maurras e il settimanale degli ultras collaborazionisti il cui caporedattore si chiama Robert Brasillach, Je suis partout, dove ai pezzi da notista politico egli affianca smaglianti recensioni musicali e cinematografiche (volentieri fuori linea, da patito per esempio di Alban Berg come di Jean Renoir) che rivelano la perfetta educazione ricevuta in un collegio di padri marianisti. E probabile che quel 16 luglio Lucien Rebatet (1903-1972) non fosse ancora informato del fatto che da ore gli ebrei della regione parigina, non meno di dodicimila, fossero reclusi nel 96 il venerdì 26 febbraio 2021 Velodromo d’Inverno, a qualche chilometro di distanza, in attesa di essere deportati nel campo intermedio di Drancy e poi direttamente ad Auschwitz. Forse non lo sapeva, Rebatet, ma se lo era augurato suggellando il suo bestseller con un invito sinistramente evocativo che proprio agli ebrei (ritenuti i colpevoli, per fanatismo anti-hitleriano, della guerra in corso) augura un châtiment collectif, un castigo collettivo. Come è possibile che una simile canaglia possa avere anche firmato uno dei più straordinari, qualcuno dice dei maggiori, romanzi del XX secolo? Se lo sarebbe chiesto George Steiner in un articolo per il New York Times (ora in Letture, Garzanti 2010) in cui affermava: «Questo vero assassino, questo cacciatore di ebrei, di combattenti della Resistenza e di gollisti» è stato comunque capace di scrivere «uno dei capolavori nascosti del nostro tempo, un libro di inesauribile umanità, traboccante di musica, d’amore, di comprensione profonda del dolore».
Dopo lo sbarco in Normandia, fuggito a Sigmaringen con la cricca pétainista (incluso il suo vecchio amico Céline), arrestato dagli americani nel maggio del ’45, condannato a morte dopo un processo dove peraltro si segnala per il servilismo e la totale assenza di dignità, incarcerato a Fresnes e in seguito a Clairvaux, Rebatet viene intanto redigendo il suo romanzo con mezzi di fortuna e la catena ai piedi del condannato a morte poi amnistiato dal governo Auriol, infine libero sulla parola nel luglio del ’52, quando già da mesi è in libreria Les deux étendards. Si tratta di un’opera monumentale, cresciuta su sé stessa come il palinsesto della sua prima giovinezza, i trascorsi di ventenne a Lione, che via via si articola in una vasta architettura a pianta radiale dove al centro si colloca un romanzo di formazione, anzi un triplice romanzo dell’apprendistato di matrice autobiografica, cui si aggiungono per cerchi concentrici almeno due altri romanzi e cioè un romanzo storico sull’entre-deux-guerres insieme con un autentico romanzo delle idee in cui letteralmente si combattono (il titolo viene da un passo degli Esercizi spirituali di Ignacio de Loyola) il vessillo secolare del Signore e l’antipode di Satana. Va dunque ritenuta un’impresa l’uscita in italiano di I due stendardi (Settecolori) nella versione di Marco Settimini che ha dovuto misurarsi con lo stile sempre ad alzo zero di Rebatet, un francese di smagliante eleganza, una specie di panoplia in cui si alternano il passo rapido e incisivo del libellista con le pause e le interiezioni musicali di un fanatico lettore di Proust.
Due giovani studenti visi contendono una donna, Anne-Marie, la quale ha il fascino di una diafana spiritualità legata tuttavia ad una ambigua fisicità: da un lato ha promesso il suo amore platonico a Régis, che sta per essere ordinato prete, dall’altro è insidiata da Michel,portavoce dell’autore, il quale è disposto per lei a qualunque sacrificio ma non a rinunciare al suo possesso carnale. Il romanzo, che all’origine avrebbe dovuto intitolarsi La teologia lionese, è una ininterrotta conversazione ovvero un ballottaggio, un perpetuo conflitto (armato fino ai denti di sapere teologico, filosofico, ideologico) cui Anne-Marie alla lunga non può che sottrarsi ma per annientarsi a sua volta, perché sa di amare Régis ma non può averlo, si dà a Michel ma rifiuta di sposarlo per avere misurato «la miseria dell’unione dei corpi dopo la follia dell’unione delle anime». Ignoto al lettore l’esito di Anne-Marie, passata di amante in amante, Régis finisce nei gesuiti mentre Michel sprofonda nella disperazione se la disperazione corrisponde al solo credo, suggerisce il Rebatet adepto di Nietzsche, di chi non crede in alcun avvenire. E infatti a proposito di religioni e di ideologie lo scrittore parla, freudianamente, di «avvenire di un’illusione», intervistato nel ’69 da Jacques Chancel per France-Inter: «Ignoro totalmente se esista un essere supremo. Io sono agnostico. Piuttosto è l’umiltà che conviene, mi sembra, alla nostra natura umana e che implica beninteso il rifiuto di tutte le religioni con i loro sistemi e i loro dogmi presuntuosi. Nella mia ignoranza metafisica, ciò di cui sono sicuro è l’inanità di quei sistemi e di quei dogmi». Rebatet non ha mai abiurato il suo delirio nazista, rimanendo un individuo probabilmente infrequentabile, ma colui che firma I due stendardi è un artista che ha vissuto, per lasciarselo alle spalle, il crepuscolo degli idoli infami della propria giovinezza. In altri termini, I due stendardi è scritto nella tabula rasa esistenziale che succede a Les Décombres e tale infatti è il senso della edizione critica del libello, Le dossier Rebatet (curata da Benedicte Vergez-Chaignon, Laffont 2015), che ne storicizza integralmente la pornografia razzista e ne disinnesca il potenziale propagandistico.
Niente di simile in Italia — a parte un breve testo relativo alla detenzione, Non si fucila la domenica, a cura di Simone Paliaga, Mimesis 2018: da noi circola soltanto una tarda appendice a Les Décombres, eloquentemente intitolata Memorie di un fascista 1941-1947, a cura di Moreno Marchi, Settimo Sigillo 1993, senza che nessuno abbia mai pensato di proporre da noi il secondo bestseller di Rebatet, che non fu certo I due stendardi ma la summa di un wagneriano a vita, celebratissima dai melomani: Une histoire de la musique edita da Laffont nel 1969 e firmata come gli accadeva prima della guerra con lo pseudonimo, in omaggio a Proust, di Francois Vinneuil. Quanto al suo grande romanzo, voluto allora in catalogo da un ex resistente addirittura, un editor della classe di Jean Paulhan, nonché personalmente da Gaston Gallimard in un clima di glaciale ostilità, pare se ne siano vendute in quasi settant’anni 30 mila copie scarse. Ma non sono poi così poche.
I due stendardi
Ventenne, lionese, un’educazione cattolica combattuta a colpi di Nietzsche e di Wagner, intelligente, ardente e senza soldi Michel sbarca negli anni Venti nella capitale per finire i suoi studi. Scopre Parigi, musica, pittura, teatro, letteratura, scopre il piacere. C’è di che inebriarsi, ma il destino ha in serbo per lui una sorpresa. Il suo amico…