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Un americano a Parigi. Con un appetito più vigoroso, Proust avrebbe potuto scrivere un capolavoro

di Linda Mambelli – Linkiesta – 23 agosto 2023

Abbott Joseph Liebling è stato un giornalista americano, corrispondente di guerra dal fronte europeo durante il secondo conflitto mondiale e storica firma per The New Yorker dal 1935 fino alla sua morte (1963). Tre mogli (l’ultima, Jean Stafford, autrice, anche lei curiosamente oggetto di riscoperta in tempi recenti), una vita dedicata alla scrittura e all’approfondimento di temi quali lo sport (pugilato in particolare), la politica e, non ultima, l’enogastronomia, materia alla quale si è dedicato con passione e abnegazione, testimoniate dal valore degli scritti lasciati oltre che dal suo stesso aspetto fisico (malato di gotta, si descriveva “sovrappeso e buon mangiatore”).

Nel 1926 un Liebling ventiduenne e benestante arrivò a Parigi per trascorrere un anno di studi alla Sorbona. «Frequentò pochissime lezioni, ma imparò cose che gli servirono per il resto della vita», dichiara James Salter, scrittore statunitense collega e fan del nostro autore.

Qui si spalancarono le porte di una città quasi mitologica, frequentata da alcuni dei più grandi nomi della letteratura e della cultura del tempo, ma non è da loro che Abbott rimane abbagliato. Ciò di cui lascia testimonianza scritta, infatti, è l’esplorazione di un mondo gastronomico che accompagnerà per sempre la sua vita, a partire da queste prime esperienze di gioventù fino alle più mature scorribande ristorative degli anni a venire.

Dagli articoli e dai saggi a tema culinario scritti durante i suoi soggiorni parigini è nata una raccolta, pubblicata la prima volta a New York nel 1962 e oggi edita in Italia da Edizioni Settecolori nella traduzione di Katia Bagnoli. Afferma Salter nell’introduzione: «Pur non essendo un romanzo, questo libro ne ha la presa: ci sono dialoghi, personaggi, descrizioni e la firma inconfondibile di un vero scrittore; in ogni pagina o quasi si intravede un intero libro sprecato. Il risultato è di una freschezza sorprendente e merita di stare sullo stesso scaffale di “Festa mobile” (E. Hemingway), al quale credo possa essere ragionevolmente paragonato».

Secondo Liebling: «Il requisito principale per scrivere bene di cibo è un buon appetito. Senza un buon appetito è impossibile accumulare, nell’arco di tempo concesso, un’esperienza alimentare sufficiente ad avere qualcosa di cui valga la pena di scrivere».

Senz’ombra di dubbio lui possedeva questo dono: nella sua esposizione non va per il sottile, l’approccio è quello di un buongustaio per il quale quantità e intensità dei sapori sono fondamentali e l’incipit del libro mette in chiaro fin da subito la sua visione: «Il fenomeno della madeleine di Proust è ormai radicato nel folklore come la mela di Newton o la teiera di James Watt. Proust ha mangiato un biscotto, il sapore ha evocato dei ricordi, ha scritto un libro. […] Considerato quanto Proust scrisse grazie a uno stimolo così blando, è una vera perdita per l’umanità che non abbia avuto un appetito più vigoroso. Con una dozzina di ostriche dell’isola di Gardiners, una zuppa di vongole, una buona porzione di arselle, alcune capesante della baia, tre granchi dal guscio morbido saltati in padella, qualche pannocchia di mais appena raccolta, una sottile fetta di pesce spada di dimensioni generose, un paio di aragoste e un’anatra pechinese, avrebbe potuto scrivere un capolavoro».

Quel primo soggiorno parigino segnò il punto più alto del suo personalissimo percorso di studi: «Il cibo della Francia del 1926-27 costituiva ancora il più grande corpus di pensiero e pratica culinaria del mondo», ma al tempo stesso, come riconosce in seguito, sono gli anni in cui per questa arte inizia una fase di decadenza: «Nel 1927 […] non eravamo in grado di percepire la condizione crepuscolare della cucina francese, perché ai livelli in cui mangiavamo noi il declino non era evidente».

E ancora: «Quando nell’autunno del 1939 tornai a Parigi, dopo un’assenza di dodici anni, notai un declino nella qualità dei ristoranti che non poteva essere imputato a una guerra cominciata da appena un mese. Il declino, capii in seguito, era già in atto negli anni Venti, all’epoca dei miei primi studi sull’alimentazione, ma con la differenza che ai tempi non disponevo di un termine di paragone; avevo preso per un’età dell’oro quella che in realtà era una tarda età dell’argento».

La Parigi di inizio secolo è continuamente richiamata nei personaggi, nei luoghi, nell’atmosfera generale raccontata dallo scrittore nei suoi articoli. Afferma Salter: «C’era tutto, nella capitale, quando Liebling vi trascorse il suo anno memorabile, benché fossero soltanto le vestigia del periodo precedente al 1914, quando lo splendore era intatto. […] Di quel mondo scomparso erano rimaste solo tracce, come oggi è rimasto poco più del ricordo degli anni Venti».

E anche noi oggi leggiamo questi ricordi con un sentimento di incanto permeato di nostalgia. Certo, la fascinazione esercitata dalla Parigi che fu su un sensibile animo d’artista americano è poi di fatto divenuta un leitmotiv (Gershwin introduce, Minnelli sviluppa e Allen conferma), ma nel caso di Liebling la sceneggiatura è costituita principalmente da menu, piatti e ingredienti prelibati.

Negli otto capitoli di “Tra i pasti” si ripercorrono aneddoti, riflessioni, racconti di fatti a tratti esilaranti, aventi per protagonisti locali storici e personaggi del mondo ristorativo parigino, ma anche e soprattutto pietanze e vini, spesso descritti nel dettaglio o con indicazioni di abbinamenti talmente accurate che verrebbe da considerare il testo una sorta di “guida gastronomica”, ma bisogna fare attenzione perché si tocca un tasto delicato.

Afferma infatti lo stesso Liebling: «Negli anni Venti e Trenta la percentuale di ristoranti francesi che si chiamavano auberges e relais aumentò, di pari passo con la motorizzazione dell’apparato gastrico francese. Per la loro sussistenza dipendevano dai guidatori della domenica e dei giorni festivi, che magari non sarebbero più passati da quella strada, e la Guide Michelin, organo di un produttore di pneumatici, disgraziatamente divenne l’arbitro dei luoghi in cui pranzare e cenare, un esempio deprimente della subordinazione dell’arte agli affari. Nel 1939 i nuovissimi locali “medievali” lungo le altrettanto nuove autostrade stavano soppiantando i vecchi alberghi di fronte alle stazioni ferroviarie, che nel primo quarto del secolo erano stati i centri della buona e solida ristorazione di provincia».

«Root (Waverley Root, giornalista e amico di Liebling, nonché autore di “The Food of France”, testo spesso citato in “Tra i pasti”, ndr) ammira La Pyramide (ristorante a sud di Lione, ndr), nel complesso, ma ritiene che nessun ristorante situato su una strada di provincia possa essere definito veramente grande, dal momento che i clienti fanno molti chilometri per mangiare le sue specialità e quindi non è necessario cambiare il menu. Il vero grande ristoratore è colui che riesce a soddisfare essenzialmente la stessa clientela settimana dopo settimana senza annoiarla o deluderla. La cuisine française non è una sola, bensì una ventina di cucine di origini regionali, che sfumano l’una nell’altra ai loro confini e si riuniscono a Parigi. Poiché alcune di queste cucine sono quasi antitetiche ad altre, il sedicente amante della cuisine française senza qualifiche ammette semplicemente di non avere alcun gusto». Una conclusione attuale quanto non mai!

Il nostro autore prosegue affrontando tanti e diversi aspetti della cultura culinaria, dimostrando in maniera inconfutabile quale sia la disponibilità economica perfetta per sviluppare un’autentica sapienza gastronomica («La situazione finanziaria ottimale per un serio apprendistato di mangiatore è quella di disporre di fondi per tre giorni, con una ragionevole, ma non certissima, prospettiva dell’arrivo di rinforzi in seguito»), oppure esponendo – con testimonianza di fatti vissuti in prima persona – il suo condivisibile parere circa le diete («Nessuna persona sana di mente può permettersi di rinunciare a piaceri debilitanti; nessun asceta può essere considerato attendibilmente sano di mente»).

Un intero capitolo è dedicato al mondo delle ragazze francesi, ma nasce solo come tentativo di «riflettere con coscienza su quel che combinavo tra un pasto e l’altro nel 1926-27».

Abbott tornò molte volte a Parigi, guadagnando anche la croce della Legione d’Onore per i suoi reportage di guerra («Nel 1952, ricevetti una onorificenza francese per il più deludente dei motivi: essere uno scrittore. A volte la prendo di nascosto dalla custodia e la guardo, fingendo di averla vinta saltando a cavallo sulle baionette di una schiera britannica a Waterloo e, una volta dall’altra parte, decapitando un Colonnello Onorevole Comesichiama, rappresentante di secondo piano dei Tory alla House of Commons»).

Pochi mesi dopo l’ultima visita morì, cinquantanovenne, a New York, per problemi polmonari. «Le sue ultime parole furono pronunciate nell’ambulanza che lo trasferiva da un ospedale a un altro. Non fu possibile capirle, ma erano in francese» (Salter).


Tra i pasti. Un appetito per Parigi

20,00 

Nella Parigi novecentesca fra le due guerre sbarca per un anno sabbatico, che contempla l’iscrizione alla Sorbona, il giovane A. J. Liebling. Le sue passioni sono il pugilato, il sesso e la cucina e la capitale francese offre in tutti e tre i campi il meglio che si possa desiderare. La Guide rose presenta una…

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