Pasolini vs. Saint-John Perse. Ovvero: i premi letterari sono inutili
di Davide Brullo – Pangea – 1 Maggio 2024
Nel dicembre del 1960, su “L’Europa letteraria”, straordinaria rivista diretta da Giancarlo Vigorelli, Pier Paolo Pasolini scrive un articolo di lungimirante intelligenza e illuminata idiozia. A quell’altitudine cronologica, Pasolini aveva 38 anni, qualche processo sul groppone, un’estenuata vitalità. Aveva già scritto i libri più belli, in versi (La meglio gioventù, Le ceneri di Gramsci, L’usignolo della Chiesa Cattolica) e in prosa (Ragazzi di vita, Una vita violenta). Tra poco, avrebbe esordito al cinema con Accattone (1961); tre anni prima, aveva scritto, insieme a Flaiano e a Pinelli, un film per Federico Fellini, Le notti di Cabiria.
Nel corrosivo commento uscito su “L’Europa letteraria”, PPP si scaglia, con esatte fucilate, contro l’ipocrisia dei premi, indegno parto della puttana borghesia. Aveva ragione. Martirizzato da polemiche e denunce, Ragazzi di vita era stato escluso dallo Strega e dal Viareggio; l’anno prima, nel ’59, Una vita violenta era arrivata nella cinquina dello Strega, piazzandosi però al terzo posto, dietro due libri diversamente magistrali: La casa della vita di Mario Praz e Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che ottenne il premio in assenza dell’autore, deceduto. Nel 1968, Pasolini, “In nome della cultura”, si ritirerà pubblicamente – scriveva sul pulpito de “Il Giorno” – dallo Strega, “completamente e irreparabilmente nelle mani dell’arbitrio neocapitalistico”.
Quell’anno, la sua rabbia era indirizzata al Nobel per la letteratura, andato al poeta, d’elitario estro, con elitre d’oro, Saint-John Perse. È qui che PPP pecca d’ingenuità ideologica. Egli accusa, in sostanza, Saint-John Perse d’essere un nipote in cravatta di Rimbaud, un retrivo classicista, un addomesticato borghese. Tutto il contrario: Saint-John Perse ha battuto strade liriche pressoché solitarie, ideando, in poemetti dal fascino conturbante (Anabasi ed Esilio, i suoi capolavori, idolatrati, tra gli altri, da Thomas S. Eliot, Giuseppe Ungaretti, Hugo von Hofmannsthal), una mitologia propria, screziata, magari, irritante, irta di cristalli, ma non per questo domestica alla ‘tradizione’. Il poeta che più di tutti ha fissato il muso da iena della Storia, ha miniato una cronaca propria, disallineata ai fatti del mondo, in un oltretempo che sta tra Tacito, gli Annali di Confucio, Marco Aurelio e Paul Claudel, entro l’orizzonte dei viaggi sublunari e delle mappe asiatiche di Guglielmo di Rubruck, il sommo frate avventuriero vissuto nel XIII secolo.
Certo, Saint-John Perse è poeta distante, quintessenziale a una cavalleria del cuore: l’eccesso di vertigine non può invalidare il giudizio; non possiamo recintare l’abisso – come fa PPP – con l’etichetta “irrazionale”. Non si può rimproverare a un uomo l’ascesa perché siamo esegeti del fango. Saint-John Perse – forse era questo a irritare Pasolini – è poeta per pochi, per pochissimi: il tomo delle Œuvres complètes che si è auto-compilato per la ‘Pléiade’ Gallimard nel 1972 è un mausoleo pieno di echi e di labirinti – compreso il carteggio con Winston Churchill, Allen Tate, André Gide e Roosevelt –, un idolo che accoglie, con carnivora alterigia, un fedele alla volta. Il suo “classicismo” – in realtà, tumefatto da neologismi e budella da un linguaggio inaudito – non è “uno dei più tipici”, come scrive Pasolini: S-J. Perse è poeta da tempo assente dal consesso poetico italiano, pubblicato con il contagocce (per Crocetti sono usciti I poemi provenzali, 2016 e Anabasi, 2022), alieno dal ‘dibattito’ degli odierni poeti. Per leggerlo, si ha oggi una opportunità unica: Nicola Muschitiello – poeta, già traduttore di Baudelaire, Arthur Cravan e Céline – ha curato per le neonate edizioni Medhelan (antico nome celtico della città di Milano), che un tempo operavano come Settecolori, l’opera più ardita e oceanica di Saint-John Perse, Amers, resa come Segni d’amaro approdo. Il libro – uscito, in origine, nel 1957 – consentì, di fatto, a Saint-John Perse il Nobel. La traduzione di Muschitiello si affianca a quella – pur bella – di Romeo Lucchese (che traduce Amers in Segnali di mare), conferendo a S-JP la consueta andatura nobile, marziale, onnipotente; così l’attacco del poema:
“E voi, Mari, che leggevate in sogni più vasti, ci lascerete voi ai rostri della città una sera, in mezzo alla pubblica pietra e ai bronzei pàmpini?
Più larga, o folla, la nostra udienza su questo versante d’una età senza declino: il Mare, immenso e verde come un albeggiare all’oriente degli uomini,
Il Mare festoso sulle sue gradinate come un’ode di pietra: vigilia e festa alle nostre frontiere, mùrmure e festa ad altezza di uomini – il Mare stesso la nostra veglia, come una divina promulgazione…L’odor funebre della rosa non circonderà più le grate del sepolcro; l’ora viva nelle palme non silenzierà più la sua anima di straniera… Amare, le nostre labbra di vivi furono mai?”
Poesia che procede per epigrafi (“La più alta usurpazione è nel vascello dell’amore”) ed esortazioni, per annali che inibiscono l’oggi a casta bestiola senza capezzoli (“Mezzogiorno, le sue belve, le sue carestie, e l’Anno di mare al suo punto più alto sulla tavola delle Acque…”) e per reinventati inni (“Mar di Baal, Mar di Mammona – Mare di ogni età e di ogni nome,/ O Mare senza età e senza ragione, o Mare senza premura e senza stagione”), che sfianca, semmai – rispetto alla cattiva delibera di PPP –, perché è indocile al poetare comune, al lirico potere imperante: parola-aruspice, parola-indovina, che raduna le stelle in tazza e si avvia verso gli ignoti del linguaggio. Capisco l’assalto dell’intellettuale: è poesia che spaventa, quella di S-JP.
Sbaglia, PPP, a insinuare che Saint-John Perse sia l’araldo di una qualche “borghesia”. Aristocratico, semmai, Perse – nato, in realtà, Alexis Leger –, cultore in sprezzatura e alata solitudine. Tutt’altro che borghese – rispetto, in fondo, alla ‘spettacolare’, spettacolarizzata, urbanizzata, scandalistica esistenza di Pasolini – la vita di Saint-John Perse, nato in un’isola delle Antille francesi, diplomatico in Cina dal 1916 – visse gli estremi torbidi del regno narrati in sintesi ne L’ultimo imperatore di Bertolucci; attraversò in spericolate gite, descritte minutamente all’amico Joseph Conrad, il deserto del Gobi – fu il braccio destro di Aristide Briand e fu l’unico, durante la fatale Conferenza di Monaco del 1938, a ribellarsi apertamente contro Hitler, giungendo quasi a menarlo. Il Führer si prenderà la sua vendetta privata: dopo aver invaso Parigi, i nazisti saccheggiano la casa del poeta, confiscandola e distruggendo una vasta mole di documenti; S-JP, nel frattempo, inviso perfino dai suoi, sfolla negli Stati Uniti, inaugurando una vita di peregrinazioni, tra Giappone, Messico, Patagonia, Canada, Colorado, per studiare la geologia del pianeta, i millenari moti dei migratori. Ritornerà in patria soltanto nel 1957, evitando Parigi.
In lizza per il Nobel, nel 1960, spiccavano, per la Francia, Louis Aragon, René Char, Henry de Montherlant, André Malraux, Julien Gracq, Jean-Paul Sartre; Saint-John Perse – ‘presentato’ da Eliot – riuscì a vincere la concorrenza di Robert Frost, Ezra Pound, John Steinbeck, E.M. Forster. Per la Germania concorrevano Heinrich Böll e Martin Heidegger; per l’Italia Ignazio Silone e Alberto Moravia, l’amico di Pasolini, che proprio quell’anno aveva pubblicato La noia. Il romanzo aveva vinto il Viareggio ed era descritto dall’editore, Bompiani, come “il momento più alto e felice dello scrittore… un libro responsabile e coraggioso, stimolante e irritante”; una pubblicità a piena pagina campeggia proprio su “L’Europa letteraria”.
Nello stesso numero in cui, con torbida baldanza, PPP tenta di annichilire Saint-John Perse – poeta, per altro, che non vanificò la propria gloria per il trogolo della fama – “L’Europa letteraria” pubblicava le poesie di Robert Graves e di Nazim Hikmet, un saggio di Calvino su Pavese, un racconto di Giovanni Arpino, un estratto da La noia di Moravia; Vigorelli – con insolita vigoria – scriveva di “Sesso e letteratura”, Angelo Maria Ripellino del “pre-dadaista” Chlébnikov e Fernanda Pivano di Henry Miller. Pasolini, in quello stesso numero, traduce una poesia di André Frenaud: nei primi versi (“Sempre i vostri estri di magra rabbia/ Sempre lì a limare l’aria/ Sempre lì a masturbarvi le piaghe”) pare rispecchiarsi. A quel tempo, essere intelligenti non era un difetto e la polemica era il distillato dell’ingegno.
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Perché il Nobel a Saint-John Perse?
Si sa che ogni innovazione linguistica ha in sé gli elementi per così dire colloidali che permettono la susseguente fissazione. Se poi l’innovazione linguistica è di tipo formale – è cioè una ricerca linguistica a sé, che abbandona all’irrazionale il proprio contenuto, che fa dell’irrazionale la propria riserva di temi, di materie prime – allora quegli elementi stilistici che prevedono e permettono la fissazione sono ancora più pronti e abbondanti. E pour cause: la ricerca stilistica formale – l’allargamento verbale, la riscoperta fonetica – è un espetto del classicismo: e paradigma del classicismo è poi la fissazione linguistica.
Prendiamo per esempio la rivoluzione di Rimbaud: essa contiene già tutti gli elementi – da quelli più profondi a quelli più esterni, ritmici e metrici – del lavorio di fissazione, di normalizzazione di Saint-John Perse.
Il classicismo di Perse è uno dei più tipici del Novecento europeo: esso possiede tutti i difetti di ogni classicismo – la retorica, il gusto del calco, la mimetizzazione di un’ars dictandi divenuta puro mito ecc. – e in più quelli tipici del classicismo della cultura borghese moderna: ossia l’evasione e il formalismo, che sono poi dati estremi della reazione e del misticismo.
Mentre in Rimbaud il “farsi” dell’innovazione riusciva terribilmente drammatico, accadeva in corpore vili, e noi, attraverso l’elaborazione dei modi stilistici assistevamo, punto per punto, al “deragliamento” di un’anima, con il Saint-John Perse, ci troviamo di fronte a un’anima già “deragliata”: non si sa dove, quando e perché.
Al momento in cui Rimbaud finisce, Saint-John Perse comincia, rassicurato, collaudato e protetto da tutti i rigori classicistici del Simbolismo. Sicché, quest’anima “deragliata” senza dramma, ma, direi, per precettistica letteraria, racconta di sé una situazione assolutamente statica: la cosa è avvenuta: ebbene, non resta che descriverla senza mai, naturalmente, raccontarne la storia. L’irrazionale è inesauribile, si sa: i mezzi espressivi per elaborare “raziocinando” (non mai “ragionando”!) l’irrazionale sono affinati da un’intera tradizione e la serie di continui piccoli scandali linguistici ch’essi possono produrre è pressoché infinita.
Si è detto che Saint-John Perse ha avuto una doppia vita: quella esterna di diplomatico e quella interiore di poeta. Niente affatto: la sua operazione è tutta diplomatica. E non è vero nemmeno che la sua fosse una vocazione intransigente e ammirevole: era semplicemente un hobby, come si dice (e come forse malignamente avranno già detto): la sua ossessione era totalmente addomesticata, anestetizzata: rispecchiandosi in se stessa, imitandosi, è rimasta pura e insignificante ossessione.
Non capisco perché abbiano dato a un simile poeta il “Nobel”: del resto da qualche anno non si capisce mai perché si diano premi: segno di confusione mentale, o forse, finalmente!, di crisi.
La borghesia non si riconosce più nella propria cultura, o, almeno, non sa più stabilire gerarchie di valori nella propria cultura.
Segni d’amaro approdo
La poesia (non solo quella di Perse) non chiede di essere compresa con la mente sola, ma di essere “compresa”, nella sua incerta totalità, usando la rete a strascico di intuizione, divinazione dei suoni, immaginazione, cultura e, certo, di intelligenza. Poeta “atlantico”, com’egli si sentiva, nativo che era di un’isola della Guadalupa, Perse non voleva…